Il libro prende avvio da una riflessione personale dell’autore, avvocato penalista, da molti anniimpegnato nello studio delle forme di potere che può esercitare il linguaggio nelle aule di giustizia. Il presupposto da cui parte Iacopo Benevieri è che le parole sono lo specchio della polis, soprattutto quando descrivono i rapporti tra uomo e donna. Questa corrispondenza si riverbera anche nelle aule di tribunale, luogo di incontro delle parole di tutti i protagonisti del processo (magistrati, avvocati, imputati, testimoni, vittime). Anche nelle aule di tribunale, dunque, le parole pronunciate possono replicare le concezioni patriarcali che esistono nella società civile
fuori dell’aula. Ciò accade soprattutto nei processi per violenza di genere, nei quali le vittime possono subire la cosiddetta “vittimizzazione secondaria”: non solo perché devono raccontare il fatto subito e dunque rievocare il trauma, ma anche perché fin troppo spesso devono farlo rispondendo a domande formulate con modalità, con meccanismi linguistici che esprimono un giudizio negativo sul comportamento della vittima, frutto di una concezione patriarcale e maschiocentrica.
Nel libro l’autore disvela proprio questi sottili meccanismi di potere linguistico, facendo esempi tratti da domande realmente formulate nel corso di alcuni processi penali. Evidenzia
gli stereotipi maschili che si nascondono dietro certe parole, oppure nelle domande apparentemente cortesi o suggestive. Le parole in tribunale, dunque, possono introdurre
rappresentazioni stereotipiche della vittima, che può essere rappresentata come prima responsabile della violenza subita. Anche un astuto ricorso al silenzio può essere strumento di
vittimizzazione secondaria.
L’autore illustra anche come gli stereotipi di genere affondino le proprie origini nei miti dell’età classica, in un inconscio collettivo antico. Se il mito costituisce uno dei primi codici
narrativi attraverso i quali l’uomo racconta sé stesso, se è lo specchio d’acqua attraverso il quale una società si osserva, ecco che allora il tema della violenza sessuale, le figure di autore e di vittima narrate nei miti hanno costituito modelli di conoscenza che sono giunti sino a noi. Il loro eco si diffonde ancora nelle parole che usiamo per raccontare la violenza di genere.
Il rischio è chiaro: se il lessico del dominio androcentrico viene prodotto persino nelle aule di tribunale, cioè nei luoghi istituzionali dove si amministra l’applicazione della legge,
la conseguenza è che risulti amplificata quella visione sociale della violenza che colpevolizza la vittima. Se anche i luoghi del diritto vengono contaminati dagli stereotipi di genere, ciò
significa che le parole pronunciate in quei luoghi non sono più strumento di diritti, ma di prepotenze.
L’opera è scritta con un linguaggio divulgativo e si rivolge a un pubblico vasto, in particolare a tutti coloro (giornalisti, insegnanti, assistenti sociali, pubblicitari, avvocati,
magistrati…) che usano le parole in contesti e per scopi istituzionali e professionali e che, in tal modo, contribuiscono alla produzione di quel “senso comune” sul tema della violenza di genere che vive nella società. L’auspicio è che, grazie alle riflessioni contenute in questo libro, ciascuno si interroghi sul linguaggio che utilizza e acquisisca la consapevolezza che le parole devono tornare a essere strumento di diritti anziché di potere tra generi. Un nuovo idioma è possibile.
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